La strage di Querceta: intervista ad Angelo Michele Lombardi

Buongiorno e grazie per questa intervista.
Angelo Michele Lombardi: il tuo è un nome noto in Versilia, tuo malgrado. Infatti è legato indissolubilmente a un gravissimo fatto di cronaca, in quanto tu sei figlio di uno dei tre caduti della Strage di Querceta.

Articolo giornale
Articolo giornale

Per chi non conoscesse i fatti, li riassumiamo brevemente.
Correva l’anno 1975 e l’Italia era nel pieno di quelli che sarebbero passati alla storia come Anni di Piombo. All’epoca dei fatti, le Questure di La Spezia e di Lucca, il Commissariato di Viareggio e la Criminalpol di Firenze stavano dando la caccia a Massimo Battini,  pericoloso evaso, autore di furti e rapine, che si riteneva si nascondesse sui monti sopra Forte dei Marmi, e stavano eseguendo numerose perquisizioni alla ricerca di armi e refurtiva.
L’alba del 22 ottobre vennero riuniti presso il distaccamento della polizia stradale di Viareggio quasi 100 agenti, provenienti dalle questure liguri e toscane, per effettuare queste perquisizioni. Furono formate diverse squadre comandate da vari funzionari. Al Vice Questore di La Spezia, dott. Rodolfo Venezia, fu affidata quella, composta da una ventina di agenti, che avrebbe dovuto eseguire il controllo dell’abitazione che il giovane pregiudicato Giuseppe Federigi divideva con la madre e i fratelli in località Montiscendi a Querceta (Pietrasanta). La seconda compagnia mobile di Pisa si appostò tra la boscaglia intorno allo stabile, circondandolo, e poi comunicarono ai residenti l’ordine di perquisizione. A quel punto si affacciò Federigi, in mutande, che chiese il permesso di rientrare per vestirsi. Dopo qualche minuto, considerato che questi non si apprestava a ritornare, alcuni agenti entrarono in casa.
Erano il brigadiere Gianni Mussi, gli appuntati Giuseppe Lombardi e Armando Femiano, il maresciallo Giovanbattista Crisci, gli agenti Domenico Guarini e Stefano Belmonte  e il vice questore Venezia.
Dopo pochi secondi, Battini – che nessuno riteneva fosse presente in quella casa- sparò con un mitra da dietro una porta a vetri, uccidendo sul colpo  l’appuntato Femiano e ferendo Mussi e Lombardi. Il vice questore riuscì a fuggire mentre Guarini si gettò da una finestra rompendosi un piede. Belmonte provò a rispondere al fuoco, ma il suo mitra si inceppò. Fortuitamente riuscì comunque a precipitarsi fuori prima di essere raggiunto dai colpi dei malviventi.
Subito dopo Battini e Federigi raggiunsero l’ingresso dell’edificio, continuando a sparare e ferendo gravemente Crisci. Battini finì a colpi di mitra Mussi, mentre fu Federigi a dare il colpo di grazia a Lombardi, già agonizzante a terra. Tentarono di finire anche Crisci, che giaceva ferito, ma si salvò perché il proiettile sparato dagli assassini centrò il suo distintivo. Continuarono a far fuoco attraverso una finestra ferendo al braccio l’agente Vincenzo De Luca, dopo di che scapparono in direzione del bosco, ma  furono finalmente catturati.
Battini e Federigi, nel corso del successivo processo a loro carico dichiarono di appartenere al gruppo “Lotta armata per il comunismo” (un gruppo che fiancheggiava le Brigate Rosse), definendosi prigionieri politici.

La Nazione 23/10/1975
La Nazione 23/10/1975

Angelo, tu all’epoca dei fatti eri poco più di un bambino. Cosa ti ricordi? Come hai vissuto quei giorni?

Intanto vorrei ringraziarti per l’interessamento. Preciso che non ero un bambino: avevo diciotto anni e qualche mese, e frequentavo la quinta ragioneria presso il Carlo Piaggia di Viareggio. Mi ricordo che quella mattina, mentre andavo a scuola, vidi una grande confusione davanti al vecchio commissariato che si trovava in via Battisti. Ma, pur preoccupandomi perché non sapevo cosa potesse essere accaduto, seguitai a camminare per raggiungere la scuola. Noi a casa eravamo all’oscuro di tutto: non avevamo neppure il telefono. Una volta arrivato in classe, sentii il professore della prima ora dire che avevano ammazzato mio padre. Il professore, bravissima e degna persona, non si era reso conto della mia presenza. Fu così che seppi della faccenda. Dopo mi accompagnò a casa il preside, dott. Signorini, e in quella maniera lo vennero a sapere anche mia mamma, mia sorella e mia nonna. Subito dopo arrivarono i poliziotti, ma oramai in casa nostra era iniziata la tragedia. Poi le varie personalità, i giornalisti, i politici, e via dicendo. Il riconoscimento della salma all’obitorio, l’esposizione dei caduti nella sala del comune, il funerale, le molte promesse. Il secondo funerale in Molise. Il processo e via dicendo. Un susseguirsi vorticoso di avvenimenti tragici e dolorosi. Io ero frastornato, confuso, inebetito; il dolore che da quel giorno mi segue e si ripresenta continuamente. Ho vissuto i primi giorni in silenzio, non parlavo. Anche il fatto di non poter piangere in pace perché sempre circondato da persone è un qualcosa che non ti aiuta.

Rapine – i cosiddetti “espropri proletari”-, mitra e sedicenti “prigionieri politici”: il clima degli Anni di Piombo si avvertiva anche in Versilia e a Viareggio. Sembra incredibile per chi non l’ha vissuto. Com’era la situazione nelle nostre zone in quegli anni?

Hai toccato un tasto delicato. La parola “sedicenti” è quella che ha fuorviato il pensiero di troppi giovani di allora. Anche Battini non venne creduto quando affermò di far parte di un gruppo eversivo della sinistra comunista. Quando disse di far parte di Lotta Armata per il Comunismo non venne creduto.  Non dimentichiamo che negli anni ‘70 il Partito Comunista in Italia era molto forte e anche in Toscana faceva la parte del leone. Quotidiani, riviste, televisione, artisti e varie persone appartenenti al mondo del’arte, si prodigavano per cercare di nascondere la verità che invece era chiara come il sole. Esisteva cioè una sinistra più comunista di quelli che erano i rappresentanti ufficiali in parlamento. Questi terroristi, che si ispiravano al marxismo leninismo più puro, al maoismo più violento, al guevarismo più esaltato, nei primi anni ‘70 e anche dopo, non venivano presi in seria considerazione. Addirittura molti giornali, tra i quali anche l’Unità, spesso affermavano che certi atti terroristici (dei quali si autoaccusavano appartenenti alle Brigate Rosse, oppure ai Nuclei Armati Proletari o ad altre sigle dell’estrema sinistra),  erano compiuti da quelli di destra, per creare confusione e contrasti a livello politico. Insomma, questa faccenda dei “sedicenti” terroristi ha creato parecchi danni. Figuriamoci se in quegli anni, in Toscana e in Versilia particolarmente, avrebbe potuto passare il fatto che ci fosse un qualche terrorista di sinistra. Poi, volendo, potrei ricollegarmi alle varie rapine compiute in quegli anni da vari esponenti dell’eversione rossa, tra cui anche Renato Curcio, oppure riallacciarmi persino al sequestro del piccolo Lavorini a Viareggio. Ma queste sono altre storie. Per farla breve, a Battini vennero riconosciuti molti dei suoi reati come eseguiti per scopi eversivi e d’altra parte lui stesso lo ribadì in alcune delle sue lettere scritte dal carcere alla fine degli anni ‘80.

Giuseppe Federici e Massimo Battini, gli assassini di tuo padre e dei suoi colleghi, furono condannati all’ergastolo per omicidio volontario, con sentenza passata in giudicato dalla Cassazione. Da tempo però sono tornati liberi cittadini, grazie ai benefici della “Legge Gozzini” del 1984, che premiava chi si dissociava dal terrorismo. La pena fu inizialmente ridotta a 30 anni, e successivamente a 20 per ulteriori sconti. Ti sembra una pena giusta?

Federigi pochi anni dopo la strage beneficiava già di permessi per uscire e andare al lavoro. Si sposò nel 1981, poi beneficiò della Legge Gozzini. Battini si dissociò dalla lotta armata e nel 1988, con sentenza del Tribunale di Torino, gli venne riconosciuto e l’ergastolo venne trasformato in 30 anni. Nel 2003 poté tornare libero. Anche lui, naturalmente, dopo aver beneficiato di vari permessi.  La pena dell’ergastolo per me è una giusta pena, per chi ha commesso omicidi, e tra l’altro -vorrei ricordare- eseguiti con inaudita ferocia. Detto questo, oggi le leggi sono quelle che sono e vanno rispettate. Il mio parere è troppo di parte e non fa testo. Diciamo che forse si danno troppi permessi premio a gente che non se li merita.

La Nazione nov. 1975
La Nazione nov. 1975

Hai mai incontrato i due ex terroristi? Cosa vorresti dirgli?

Non ho mai incontrato i due terroristi e non mi interessa incontrarli, né ho nulla da dir loro.

Quale fu la reazione della cittadinanza davanti a questi fatti? E quella dello Stato? Ti sei sentito tutelato?

La cittadinanza rispose compatta e solidale con le famiglie dei caduti. La tragedia che colpì Viareggio fu enorme e ci fu una mobilitazione non solo in Versilia, ma un po’ ovunque. Ne furono testimonianza le migliaia di persone che sfilarono davanti alle salme in comune e poi le circa centomila persone che seguirono il funerale di stato.  Col tempo tutto si affievolisce e tutto passa, è naturale e comprensibile. Tutto passa, tranne che per i familiari stretti delle vittime. Lo stato reagì come sempre fa: venne aperta un’inchiesta da parte del ministero dell’interno per accertare le cause di quella inutile strage, ma a noi familiari non fu mai notificata alcuna decisione o conclusione in merito. Se provvedimenti vi furono, non posso saperlo. Tanti bei discorsi. Tante promesse. In senato durante la seduta del 22 ottobre venne ricordato il fatto di Querceta e ci furono le varie prese di posizione dei vari partiti, come sempre. Nulla di nuovo sotto il sole. La tutela non so cosa voglia dire. Finito il funerale tutti spariti. Assistenza psicologica zero.

È appena uscito il tuo libro su questa tragica vicenda: Un Uomo In Divisa, ISBN 978-88-99738-23-5, Edizioni Il Molo. Si tratta di un’opera in parte autobiografica, perché il punto di vista è quello del piccolo Angelo. Parlami un po’ del tuo libro: cosa ti ha spinto a mettere nero su bianco i tuoi pensieri e la tua esperienza?

Vorrei ribadire che non ero tanto piccolo. Il libro lo avevo iniziato molti anni fa, ma non mi ero mai deciso a pubblicarlo. Col passare del tempo, leggendo vari interventi su giornali, riviste, libri scritti da altri e articoli su internet, mi sono reso conto che circolavano troppe notizie imprecise e fuorviati. Persone che raccontavano i fatti di Querceta in maniera errata, postando addirittura foto a dir poco sgradevoli. Visto e considerato tutto questo, ho ripreso in mano lo scritto, l’ho aggiornato e mi sono deciso a pubblicarlo. La mia decisione è stata anche penosa perché il riportare continuamente alla memoria quei giorni per me è molto doloroso. Ma è anche l’unico modo che ho per ricordare la figura di tre uomini, e in particolare quella di mio padre, che hanno dato la vita per salvaguardare la sicurezza di tutti noi. E’ facile dire che il lavoro di poliziotto comporta dei rischi. Certo: era il suo lavoro, ma a lui mancavano pochi mesi per andare in pensione. Avrebbe potuto tranquillamente starsene a casa quel giorno, ma il suo senso del dovere e il rispetto per le istituzioni e dello stato lo hanno portato ad essere in prima fila. Non mi riferisco solo a quel giorno. Basterebbe andare a rivedere i giornali con la cronaca di Viareggio degli anni ‘60 e ‘70 quando lui faceva parte della polizia giudiziaria. I miei pensieri poi non sono altro che la conseguenza di quanto è accaduto. Il ragazzo che ero io a diciotto anni sparì quel giorno. Travolto da un destino che altri avevano scelto per lui. Ho voluto dare voce oltre che alla figura del poliziotto anche a quella dell’orfano, non per un senso di pietismo che sinceramente non mi interessa, ma per far capire che simili tragedie non finiscono con il funerale. Che dopo c’è un seguito che non ha mai fine.

Libro di Angelo Michele Lombardi
Libro di Angelo Michele Lombardi
Giuseppe Lombardi
Giuseppe Lombardi

Non è l’unica opera letteraria sulla Strage di Querceta: anche Crisci ha recentemente raccolto le sue memorie in Un’alba vigliacca e Andrea Vinchesi -un altro agente presente quel giorno- ha pubblicato Una storia di libertà. Hai mai conosciuto gli ex colleghi di tuo padre? Secondo te, i motivi che li hanno mossi a scrivere sono gli stessi che hanno spinto te?

Ne esiste anche un altro: “Quasi per caso” di Silvestro Picchi. Edizioni Polistampa Firenze del 2011. Anche questo è stato scritto da un poliziotto che prese parte ad una di quelle famose perquisizioni. Certo che ho conosciuto e conosco molti ex colleghi di mio padre. Con Crisci, specialmente, sono in ottimi rapporti.  Il suo libro ha anticipato il mio di alcuni mesi, mentre quello di Vinchesi è dello scorso anno. Non so i motivi che hanno spinto Vinchesi, che tra l’altro non conosco, ma conosco bene i motivi che hanno spinto l’ispettore Crisci. Dopo tanti anni anche lui ha sentito il bisogno di precisare alcune cose. Riguardo alle mie motivazioni, posso aggiungere che non c’è altro modo per dare la parola ai morti, considerando che a volte i vivi raccontano cose non precise, se non false.

Oggi sei uno scrittore. Ti senti tale? Qual è il tuo rapporto con la scrittura?

Non mi sento uno scrittore, diciamo più un grafomane. Prima di riportare tutto sul computer scrivo tutto a mano, mi piace scrivere manualmente. Io, a dire il vero, sono anni che scrivo. Nel 2001 pubblicarono tre miei racconti nel libro “Storie fantastiche”, Etruria Editrice di Pistoia, dopo aver partecipato per tre anni di fila a un concorso letterario vincendo tre premi nella sezione fantasy. Successivamente, ho pubblicato con Il Molo Editore di Gianluca Muglia di Massarosa tre romanzi: nel 2011 “La villa del Terrore”, nel 2014 “La galleria del diavolo” e nel 2015 “Nero come il sangue”. Continuo a scrivere per diletto.

Gli Anni di Piombo e la lotta armata sono oggi, fortunatamente, solo ricordi lontani. Credi che potrebbe mai ripetersi una situazione del genere nel nostro paese?

Purtroppo sono un ricordo lontano per chi non ha vissuto quegli anni in maniera pesante come li abbiamo vissuti la mia famiglia ed io.  E poi non sono così tanto lontani, considerando che nel 2003 venne ucciso il sovraintendente della polizia Emanuele Petri. Tuttavia, a parte quest’ultimo episodio, non credo che possa ripetersi una simile situazione in Italia. Pur essendoci nel nostro paese una situazione socio economica delicata, non ci sono più le basi teoriche e politiche per arrivare a simili scontri. Diciamo che i ricordi riaffiorano continuamente perché troppo spesso leggiamo dichiarazioni che arrivano da vecchi terroristi sia di destra che di sinistra, oppure articoli sui giornali scritti sempre da ex appartenenti a formazioni estremiste. Senza considerare la fin troppa attenzione e importanza data a tali personaggi, anche in ambito politico, oltre che socio-culturale. Di ex terroristi in cattedra se ne sono visti anche troppi.

Secondo molte persone, le vecchie ideologie, quali il comunismo e il fascismo, sono ormai morte. Un po’ in tutta Europa, prendono forza partiti che si autodefiniscono “post-ideologici” e sembra sempre più difficile tracciare una linea netta tra destra e sinistra oggigiorno. Secondo te è così? In che direzione stanno andando l’Italia e il mondo?

Le ideologie non muoiono mai. Comunismo e fascismo esisteranno sempre. Il comunismo, per dire, è tuttora una dittatura viva e vegeta i diversi paesi nel mondo: Cina e Corea del Nord tanto per fare un esempio. Se poi in Europa prendono sempre più piede certe idee e certi partiti post ideologici ci sarà pure un motivo. Io non sono uno studioso di queste cose, ma mi guardo intorno e ascolto i vari notiziari. Quello che vedo e sento non fa pensare ad un futuro roseo, specialmente per voi giovani. La distinzione tra destra e sinistra la propongono più i capi partito che il popolo. Alla gente comune piacerebbe vivere in pace, girare per le strade senza paura di essere scippati o aggrediti, dormire nelle proprie case senza rischiare di essere rapinati. Avere un lavoro dignitoso, una sanità e una scuola che funzionino in maniera decorosa.  Ma chi sono io per giudicare? E poi, credo che a tutti piacerebbe avere nella nostra amata nazione un sistema giudiziario funzionante e la certezza della pena. Pene giuste e carcere che rieduchi, certo. Ma la certezza che la pena venga scontata con equità e giustizia, specialmente nei confronti di chi il torto lo ha subito e non solo verso chi commette reati. L’Italia è una nazione forte, abbiamo visto di peggio. Quanto al mondo, io personalmente, non vedo un futuro tranquillo. Ma, ripeto, sono solo uno del popolo che non capisce le grandi manovre di quelli che pensano e decidono anche per me.

Ci sono però ancora persone che scelgono di prendere le armi per una causa, anche nel nostro paese. Ideologie tra loro contrapposte, ma che conducono allo stesso modo a imbracciare le armi: penso ad esempio a che sceglie la via del terrorismo islamico oppure a coloro che si sono arruolati come volontari in Ucraina, oppure in Siria, con i peshmerga curdi. Cosa pensi di questo? Cosa vorresti dire a questi ragazzi?

Non vorrei semplificare troppo. Prendere le armi quando sei in guerra, magari, non è così sbagliato. Imbracciare il fucile quando la tua nazione vene attaccata, lo trovo giusto. Diciamo che sparare per un’ideologia che solo tu intendi come portatrice di benessere può rivelarsi molto pericoloso. I terroristi islamici ne sono un esempio lampante. Voler imporre a tutti i costi il proprio pensiero sugli altri è un qualcosa che va contro il mio pensare. Se poi qualche ragazzo prende le armi per andare a difendere una causa in un’altra nazione del mondo, sono scelte sue. Anche durante le varie fasi delle dittature sia rosse che nere, nel secolo scorso, giovani di diverse nazioni si sono schierati. Ad esempio ci fu chi andò in aiuto a Franco e chi invece partì per combatterlo, e così successo altrove. Il problema vero è, secondo me, che abbiamo un ONU che non serve a nulla e che in molti hanno una visione dell’Islam un tantino troppo settaria. Non sono io a dirlo. Si può verificare tutto su internet. Nel mondo ci sono ancora parecchie guerre. In quasi tutte queste c’è di mezzo l’Islam, o per un motivo o per un altro. A quei ragazzi che partono per partecipare a guerre lontane vorrei dire che sarebbe meglio stessero a casa loro a cercare di migliorare la propria nazione. Ribadisco, comunque, che io non sono nessuno per giudicare gli altri.

I terroristi rossi odiavano le forze dell’ordine, che ritenevano nemiche della rivoluzione. Come ti sembra che sia oggi il sentimento verso gli agenti di sicurezza in Italia? Sono abbastanza tutelati dallo stato?

C’è tutto un mondo di cattivi maestri dietro l’odio che mostravano i terroristi di allora. Il poliziotto veniva considerato non semplicemente e non soltanto  nemico della rivoluzione. Ma veniva inquadrato come “simbolo da abbattere”. I terroristi partecipavano a veri e propri seminari dell’odio per imparare a sparare senza che poi risentissero una benché minima forma di compassione o di rimorso.
Ho voluto intitolare il mio libro proprio “Un uomo in divisa” per significare che dentro quella divisa c’era un uomo, un padre di famiglia, un marito, un figlio, un fratello. Troppo facile era, allora, uccidere un appartenente alle forze dell’ordine con la scusa che fosse un simbolo da abbattere. Il discorso sarebbe troppo lungo. Nel mio libro ho cercato di spiegarlo meglio. Fatto sta che quasi tutti quei signori amanti della rivoluzione, alla fine, si sono dissociati dalla loro folle ideologia. Hanno appeso il fucile al chiodo e hanno detto che tutto sommato si erano sbagliati, che in Italia non c’era bisogno della rivoluzione. Meglio che qui mi fermi.
Oggi il sentimento verso gli agenti è cambiato, però neppure tanto. Purtroppo devo dire che la mia sensazione è che tale modo -errato- di vedere la polizia viene quasi sempre da una certa parte politica che non ha del tutto abbandonato certe idee.  La polizia in genere è sicuramente più tutelata dallo stato, ma ci sono ancora parecchie lacune da colmare. Speriamo che chi di dovere ne prenda atto. Quanto ai cattivi maestri cui accennavo prima, che dire? Se in televisione ci sono persone che si permettono di criticare le forze dell’ordine dicendo che non sono preparati e che quindi la gente non può sentirsi al sicuro, che altro aggiungere? Non occorre sventolare il Libretto Rosso di Mao o il Manuale del Guerrigliero di Maringhella o Mein Kampf di Hitler per essere cattivi maestri.

Crisci è molto attivo nel cercare di mantenere la memoria dei tragici fatti del ’75. Ha promosso ad esempio il Premio Scolastico e il Trofeo Internazionale di nuoto entrambi intitolati “Mussi Lombardi Femiano”. Credi che la memoria sia conservata a sufficienza oppure che le autorità potrebbero impegnarsi maggiormente?

Il trofeo di nuoto venne messo in piedi nel 1976 da Gusmano Del Carlo, presidente di una vecchia associazione di nuoto. Successivamente fu preso in mano da Crisci che negli anni lo ha fatto crescere moltissimo. Il premio scolastico è in piedi da una decina di anni grazie sempre a Crisci. Che dire? Si è dato da fare moltissimo ma è sempre più difficile. Le piscine della zona sono disastrate e a Viareggio in particolare sono anni che è chiusa. Occorrono finanziatori, che però non arrivano, perché far spostare tutti questi giovani sportivi non è facile e neppure a buon mercato. C’è poco interesse da parte delle istituzioni. La memoria per adesso c’è, ma non so quanto possa ancora durare.

Dicono che la storia insegni. Secondo te cosa ha insegnato questa storia? Il sacrificio di quegli uomini in divisa è stato vano o ha dato frutto nei cuori dei cittadini?

La storia mi pare che insegni ben poco. Dopo la strage di Querceta ci sono stati in Italia innumerevoli altri attentati. Che vuoi che ti dica? Il sacrificio di mio padre, di Gianni Mussi e di Armando Femiano fu vano. Magari non nel cuore di tutti i cittadini, ma per molti di essi non è servito a nulla. E, ribadisco, in Versilia nessuno ha mai capito cosa veramente sia accaduto quella mattina del 22 ottobre del 1975.  In molti, ancora oggi, non hanno né accettato, né ben compreso il legame politico del fatto di Querceta con l’eversione rossa degli Anni di Piombo.

Che progetti hai per il futuro? Scriverai altri libri?

Sono in pensione. Dopo quarantaquattro anni dietro una scrivania, prima quella della banca e dopo quella di agente immobiliare, ho deciso di smettere. Mi dedico alla famiglia, alla lettura  e alla scrittura. Ho già altri libri pronti. Compreso il seguito di “Un uomo in divisa”, dove vorrei puntualizzare, oltre a certi punti politici, anche alcuni aspetti della vita di mio padre, sia come uomo di casa che come poliziotto. Non dimentichiamoci che, prima di morire, ha lavorato al Commissariato di Viareggio nella squadra della polizia giudiziaria per circa quindici anni, e di interventi ne ha fatti a centinaia.

Grazie ancora, Angelo. E tanti auguri per i tuoi futuri progetti.

Grazie a te.

Lapide
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Commemorazione
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Gabriele Levantini nasce a Viareggio il 10 aprile 1985. Chimico per lavoro e scrittore per passione, dal 2017 gestisce il sito Il Giardino Sulla Spiaggia. Seguimi sul mio blog: https://ilgiardinosullaspiaggia.wordpress.com