Un po’ per sorte un po’ per dolo, Viareggio ha finito per perdere buona parte del suo patrimonio storico e non si presenta oggi come una città ricca di testimonianze del passato. Tuttavia, questa apparenza non deve ingannare perché ogni palmo di questa terra è intriso di storie che, sebbene ignote ai più, sono pronte a svelarsi agli osservatori più attenti.
La più celebre testimonianza dell’antichità di Viareggio è senza dubbio la Torre Matilde, così chiamata per l’errata attribuzione alla Duchessa Matilde di Canossa. Questa costruzione tozza e rude, realizzata quasi 500 anni fa sul canale Burlamacca, è uno dei simboli della città.
Fu costruita per sostituire il precedente e più grande Castrum de Via Regia, arditamente edificato dai Lucchesi nel 1172 su una insane paludi pericolosamente attraversate da nemici, corsari e briganti, che si trovava ormai a 600 metri dalla linea di costa e aveva pertanto perso la sua funzione difensiva. Fu così deciso di costruire un nuovo forte per lo scalo viareggino, più piccolo e moderno, da realizzare con le pietre rimosse dal vecchio castello.

Dalla cima della nuova torre, si salutò con colpi a salve l’arrivo dell’imperatore Carlo V, sbarcato al porto di Viareggio nel 1541. Vi risiedevano 15 soldati, e dal 1549, in un adiacente palazzo sopravvissuto ai secoli ma irresponsabilmente demolito nel XX secolo, il Commissario di Spiaggia, delegato di Lucca al controllo del territorio e, soprattutto, del transito delle merci nel porto viareggino.
Agli inizi del XVII secolo, la torre fu sopraelevata e sormontata da un campanile a vela dotato di due piccole campane, al quale fu aggiunto un orologio pubblico nel 1703. In questa forma sopravvivrà fino al XX secolo quando, per discutibili scelte di restauro, fu decapitata dell’ultimo piano e del campanile.
Oltre alla funzione militare, la Torre Matilde fu utilizzata anche come carcere, fino alla Seconda Guerra Mondiale. Il loro lavoro forzato dei suoi ospiti fu prezioso per la costruzione e l’espansione della darsena viareggina.
Durante le Giornate Rosse di Viareggio fu posta sotto assedio da parte degli insorti, mentre durante il regime fascista divenne tristemente famosa come carcere per gli oppositori e da qui transitarono noti antifascisti locali come Manlio Baccelli ed Elpidio Jenco.
Dopo la guerra, la torre rimase a lungo abbandonata, prima di essere interessata da vari cicli di restauri dal 1969 al 1982.
Il vecchio forte ha assistito al passare secoli, ha aperto il fuoco contro i corsari che infestavano i mari, ha visto passare l’esercito napoleonico e quello inglese, trovandosi al centro di un’accusa di tradimento verso il comandante Ippolito Zibibbi, condannato a morte e poi graziato, per aver lasciato passare i soldati di sua maestà diretti a Lucca. Ha ospitato tra le sue mura soldati e galeotti, criminali e oppositori politici, è stata simbolo del potere pubblico e per questo posta in stato di assedio dagli insorti rivoluzionari. Infine, insieme alla vicina Piazza Ragghianti, è il luogo del cuore dove generazioni di Viareggini hanno preso parte alla Fiera dei ciottorini.
Quello che però molti viareggini ignorano, è che tra le sue mura (o, secondo alcuni, tra le mura del precedente castello, parzialmente dismesso) ebbe l’epilogo una storia degna di Shakespeare che, secondo alcuni, avrebbe ispirato Alessandro Manzoni, che trascorse a Lucca alcuni periodi della sua giovinezza, per il celebre personaggio della Monaca di Monza.
Una storia di intrecci amorosi e di sangue, che coinvolse Lucrezia Malpigli, il marito Lelio Buonvisi e l’amante Massimiliano Arnolfini, appartenenti ad alcune delle più celebri famiglie dell’aristocrazia lucchese.

Sia i Malpigli che, soprattutto, i Buonvisi erano infatti famiglie tra le più ricche e prestigiose di Lucca. Questi ultimi si erano arricchiti con il commercio della seta e con l’attività bancaria ed erano noti in tutte le corti europee; ebbero spesso rappresentanti nel governo lucchese, furono tra gli organizzatori della congiura contro Paolo Guinigi e tra coloro che repressero nel sangue la Rivolta degli Straccioni. Lucrezia, considerata tra le più belle donne di quegli anni, dopo aver trascorso l’infanzia a Ferrara, tornò nella sua Lucca dove nel 1592 fu data in sposa al terzogenito dei Buonvisi, Lelio, come da accordi tra famiglie. Tuttavia, dopo meno d’un anno di matrimonio, la giovane vide rinascere la sua passione per Massimiliano Arnolfini, già iniziata a Ferrara. La leggenda vuole che si incontrassero a Villa Buonvisi, oggi Villa Torrigiani, ma la storia ci dice che gli incontri, peraltro rari, si consumarono a casa di servitori compiacenti. A quell’epoca gli Arnolfini, quelli del famoso ritratto fiammingo, pur essendo ancora ricchi e influenti, lo erano assai meno dei dei Buonvisi. Massimiliano era considerato un uomo violento, che andava in giro con un manipolo di bravi armati e che amava parte a scaramucce che scoppiavano tra le famiglie cittadine.
In preda alla gelosia e alla paura che Lelio avesse scoperto la relazione clandestina con sua moglie, Massimiliano decise di farlo uccidere da un sicario. La sera del 1 giugno 1593, all’uscita della funzione religiosa nella Chiesa dei Servi, nell’antistante e omonima piazza, cadde colpito da 19 coltellate davanti alla moglie Lucrezia.
Un fatto così eclatante scosse gli animi e una grande folla accorse a vedere il cadavere esposto nella chiesa dei Servi, proprio davanti al luogo del delitto. Il governo cittadino aprì immediatamente un’inchiesta chiedendo a chiunque avesse informazioni di parlare. Fu Giovanni Buonvisi, parente stretto della vittima, a presentarsi per palesare i suoi sospetti.

Massimiliano, avvisato dall’amico Ludovico Buonvisi, fuggì da villa Arnolfini a S. Pancrazio, oggi Villa Butori, verso il confine in Garfagnana. Il legame di Massimiliano con Ludovico, un Buonvisi, è un chiaro segnale delle profonde spaccature che attraversavano le famiglie aristocratiche lucchesi. Ludovico fu interrogato e, pur ammettendo di avere incontrato Massimiliano, riuscì ad evitare il carcere, al contrario di altri tre complici: Orazio Carli e i servitori Vincenzo Del Zoppo e la moglie Pollonia, colpevoli di aver messo a disposizione la loro casa per gli incontri clandestini dei giovani amanti. Affidati alle atroci cure dei torturatori della Repubblica, cominciarono a parlare, facendo emergere anche le responsabilità di Lucrezia, probabilmente informata dei propositi dell’amante.
Fu solo grazie all’intervento del potente fratello Giovan Lorenzo, se riuscì rifugiarsi nel convento cittadino di S. Chiara prima di essere arrestata ed evitare così il carcere. La mattina del 5 giugno 1593 vestì l’abito francescano con il nome di suor Umilia mentre, sempre Giovan Lorenzo gli corrispose una sostanziosa dote.
I tre complici furono decapitati e il governo lucchese chiese all’autorità ecclesiastica di consegnare alla giustizia secolare suor Umilia, cosa che Clemente VIII non autorizzò mai, per non acuire le tensioni tra famiglie.
Uno degli uomini di Massimiliano, tale Vincenzo di Coreglia, fu catturato e torturato. Prima di essere decapitato, confessò di sapere del piano e fece i nomi di altri tre complici: Pietro da Castelnuovo, Ottavio da Trapani e Nicolao da Pariana, i quali vennero torturati e impiccati in pubblico.
Mentre Massimiliano era ormai latitante in Val di Magra, insieme a pochi uomini fedeli, il governo pose sulla sua testa una taglia di 500 scudi. Nel frattempo, la madre, Caterina Arnolfini, tentava di sostenere la tesi secondo la quale il figlio fosse in preda alla follia, nel tentativo di evitargli il boia che l’attendeva in caso di cattura.
Dodici anni dopo questi fatti, con Massimiliano ancora latitante, Suor Umilia fu nuovamente coinvolta in uno scandalo. Anche in questo caso si trattò di incontri segreti con amanti tra le mura claustrali e dell’omicidio della conosrella suor Calidonia Burlamacchi, che avrebbero potuto parlare. Le nuove accuse le costarono il carcere, seguito da stretta clausura.
La leggenda vuole che la notizia dell’infedeltà dell’amante facesse impazzire Massimiliano.
La sua latitanza durò altri dieci anni, per un totale di ben ventidue. Finalmente, fu scoperto vagare folle nelle campagne lucchesi, proprio nei pressi di villa Buonvisi. Viste le sue condizioni mentali, la Repubblica decretò che la pena fosse commutata nel murarlo a vita nella torre di Viareggio, probabilmente il peggior carcare che ci fosse a disposizione.
Massimiliano rimase nella sua buia tomba di pietra per ben quattordici anni, senza mai poter uscire nè vedere anima viva, finché nel 1629, gravemente ammalato e ormai in punto di morte, chiese di poter essere assistito un sacerdote.
Secondo la leggenda popolare, le anime dei due amanti si incontrano ancora davanti al cancello di Villa Torrigiani ogni anno la sera del 1° giugno, mentre all’interno della villa risiederebbe l’anima del povero marito, tradito e assassinato.
Passeggiando oggi vicino alla Torre Matilde che si specchia placida nell’antica Darsena Lucca, è davvero incredibile pensare che, cinquecento anni fa, un uomo visse qui murato per ben 14 anni. Così come lo è pensare a quante vicende i secoli hanno intessuto su queste pietre salmastre e su questa terra ormai bonificata che, pur sembrando priva di storia, non lo è affatto.
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