Passeggiando per le strade di Lucca si respira la storia. Ogni pietra, ogni mattone, trasmette nitidamente il peso dei secoli ai quali ha assistito. E al di sotto, se ne nasconde un altro, e poi un altro ancora, e ancora, in una stratificazione che ha attraversato tutta la storia umana.
Viareggio avrebbe potuto, in parte, avere un po’ di quel fascino dal momento che il suo nucleo originario si sviluppò tra XVI e XVIII secolo.
Sfortunatamente, la nostra città fu sfollata e poi pesantemente colpita dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, che cancellarono per sempre la Vecchia Viareggio con le sue stradine e piazzette e angoli deliziosi come la chiesetta in Piazza dell’Olmo ma, ancor più degli ordigni, i danni li fecero in realtà i viareggini stessi.

La prima vittima illustre fu il Castello di Viareggio, o meglio i suoi resti. Abbandonato dai Lucchesi alla fine del Cinquecento, fu usato come cava per secoli. All’inizio del Novecento, tuttavia, un grande rudere chiamato dai locali “Castellaccio”, era ancora presente. Finché, tra tanti posti, non si decise di costruirci proprio sopra lo stabilimento Salov.
Nel 1917 la Passeggiata, interamente costituita da svolazzanti edifici lignei della bell’époque, che se fossero arrivati fino ad oggi avrebbero tranquillamente potuto diventare Patrimonio UNESCO, fu devastata da un grande incendio. Invece che ripristinare e restaurare si scelse purtroppo di demolire il poco che era rimasto. Solo il Negozio Martini rimane unico silenzioso testimone di quei tempi. Perlomeno, le architetture perdute furono sostituite dai bei palazzi di Alfredo Belluomini, Giusti e Galileo Chini che ammiriamo ancora oggi.
Uno di questi, il Bagno Lido, dove nel 1929 nacque il Premio Viareggio, venne poi abbattuto a sua volta nel 1938 per fare spazio al Bagno Principe di Piemonte, o “Principino” come viene chiamato in città.

Ma la smania futurista di distruggere il passato per costruire un avvenire degno dei fasti di Roma, portò i picconi dei fascisti ad abbattere ben altro che uno stabilimento balneare. Nel 1931, cadde sotto l’urgenza del progresso il cinquecentesco Palazzo del Commissario di Spiaggia e parte dell’antico quartiere dei Borghetti, nel 1938 il settecentesco Fortino sulla Foce e nel 1940 le architetture liberty della Villa Enedina.
Nella loro orgia demolitrice, avrebbero voluto sacrificare anche un intero quartiere per realizzare un vialone trionfale che unisse il mare alla stazione ferroviaria, ma il progetto fu fermato perché troppo costoso.
Il Palazzo del Commissario di Spiaggia, residenza della massima autorità locale ai tempi della fondazione del borgo viareggino, era collegato da un loggiato alla Torre con un loggiato, in modo da permettere al funzionario della Repubblica di Lucca di fuggire da eventuali assalti. Al suo posto oggi si erge la statua della Madonna, in mezzo a una rotonda. Sul palazzo si trovava anche l’orologio cittadino, spostato nel 1703 sulla Torre, e anch’esso andato perduto.

Il palazzo fu sacrificato, insieme a parte dell’antico quartiere dei Borgetti, odierno Terminetto, per fare spazio al cavalcavia ferroviario. Di quest’area, che era il cuore storico della città, la guerra straziò gli ultimi rimasugli e oggi non ci resta che una malinconica croce di ferro e pietra in uno spartitraffico davanti al supermercato Pam.
Anche il Fortino sulla Foce fu sacrificato per il trasporto cittadino: se ne ottenne una strada più larga, e più adatta alle auto, cancro che cominciava allora a diffondersi, e uno spazio urbano ritenuto all’epoca più bello e moderno. Finiva così la secolare storia della fortificazione, costruita nel 1788 a supporto della Torre Matilde e divenuta nel 1909 la sede della Capitaneria di Porto.
Villa Enedina fu costruita nel 1902 dalla famiglia Castoldi e divenne celebre per le leggende di fantasmi che la riguardavano. Fu demolita nel 1940 per realizzare in stile razionalista la Casa del Fascio che, danneggiata dall’esplosione del deposito di mine nell’adiacente Villino Montauti, ebbe stessa sorte dopo la guerra.

Anche nella zona del Mercato furono fatti lavori che portarono alla scomparsa di edifici meno illustri, come la casa che interrompeva via Veneto, creando la piccola via Rossini, che venne abbattuta nel 1927 per aprire la strada.
La guerra fece immensi danni che, nella fretta e nella povertà della ricostruzione, si decise di non riparare. Così, quel poco che era rimasto venne abbattuto.
Il caso più clamoroso fu quello della chiesa di Sant’Antonio. L’edificio, realizzato a partire dalla fine del XVI secolo, era praticamente raso al suolo. Rimaneva solo il campanile e, poco lontano, il Battistero, miracolosamente quasi intatto.

La chiesa fu costruita in modo diverso da quella originale, a partire dall’orientamento dell’edificio. iL campanile non fu realizzato, nonostante ci fosse lo spazio per farlo, e il Battistero fu abbattuto per allargare la piazza.
Nel 1947, in un intervento di restauro piuttosto discutile, il settecentesco piano rialzato della Torre Matilde, con tanto di campane e orologio cittadini, fu rimosso, così come gli edifici che, nel corso dei secoli, si erano stratificati e appoggiati sulla struttura della fortificazione.
Del Palazzo Cittadella, antica sede del municipio, non furono salvate che le imponenti colonne in marmo, che oggi fanno dubbia mostra di loro a Largo Risorgimento.

Non solo gli edifici, ma anche la linea tranviaria cittadina non fu mai ripristinata.
Dopo la ricostruzione ci fu il boom economico e, con esso, il sacco edilizio che sfregiò irrimediabilmente la città, così come buona parte della martoriata penisola italiana.
Tra i casi più grotteschi si annoverano la demolizione di Villa Adelinda, adiacente a Villa Argentina, costruita nel 1922 e demolita nel 1967 per aprire la strada e costruire due orridi condomini e Villa Martinelli.

Per quest’ultima, destinata ad essere sostituita dall’ennesimo condominio, si mosse anche Italia Nostra, che riuscì a far porre il vincolo dalla Soprintendenza, il quale fu a sua volta cancellato da complesse vicende burocratiche. La soluzione fu quella di smontare la villa per ricostruirla all’angolo tra via Buonarroti e via Zara, dove si trovavano i ruderi della “villa delle paure”, ma, nello smontaggio, l’edificio rovinò e non fu possibile salvarlo. Così, perlomeno, sostenne la ditta. I pochi elementi architettonici sopravvissuti finirono poi sparsi in altre ville del territorio.
La vecchia casa di Giovanni Pacini, dove soggiornò dal 1822 al 1857, e dove compose importanti opere, fra le quali la “Saffo”, fu sostituita da un grande condominio che i viareggini battezzarono “Grattacielo”. Peraltro, la Torretta Fiat, unico elemento particolare dell’anonima costruzione, andò a sua volta perduto.
Nel 1962 fu abbattuto il Teatro Puccini, inaugurato nel 1938 al posto dell’ex-ippodromo nella Pineta di Ponente.

Anche l’architettura industriale cittadina, danneggiata dalla guerra, fu definitivamente cancellata, a cominciare dall’imponente Vetraria, al posto della quale oggi c’è un parco urbano che -nonostante le promesse delle varie amministrazioni- versa in condizioni indecenti, il Gasometro, i Pubblici Macelli e la Fonderia Lera.
Nel gran mucchio di caduti, sotto i colpi del tempo dell’insensibilità, ci sono vittime illustri come Villa Rigutti, dove ebbero inizio le Tre Giornate di Viareggio, l’ottocentesca Villa Giannini, che era al posto del palazzo di latta dell’OVS o la Rotonda del Pesce al Mercato, e vittime meno note, come le casette sostituite dal Palazzo Static o l’armeria Delcaria, in via Mazzini.
Ci sono piccoli dettagli, come il leggero gazebo nella vecchia Piazza delle Vettovaglie, l’edicola liberty in quella che fu Piazza Grande, e che oggi è demolita dal brutto edificio municipale, la fontana marmorea che si trovava in Pineta di Ponente, salvata dalla discarica solo da qualche anima buona che la usò per adornare la Chiesa del Terminetto o il Cimitero Anglicano.

Altri luoghi sono semplicemente scomparsi, come Piazza Bottini, che era tra via del Fabbretto -oggi via Puccini- e via San Francesco, con il suo arco e il suo lavatoio o il vecchio faro.
Altri esistono ancora, ma sono semplicemente irriconoscibili, come Piazza Pinciana, dove si trovava Palazzo Santini, detto “Il Casone”, la storica Camera del Lavoro, protagonista delle storie della Viareggio ribelle, l’Hotel Regina, o Tito del Molo.
Altri ancora se ne sono andati così come se ne vanno i sogni al risveglio, lasciando il dubbio che siano mai davvero esistiti, come i tanti casolari di campagna ingoiati dal mostro dell’ingordigia umana, che li ha trasformati in abominevoli condomini. È difficile oggi credere che Campo d’Aviazione, Terminetto e Migliarina fossero campagna solo pochi decenni fa. Eppure, in via Glicini, un pezzo di muro rotto, che u una cascina abbattuta negli anni ’70 per far spazio al palazzo prospicente, è la solida testimonianza di questa triste realtà.

Molto, moltissimo, è andato perduto, ma possiamo fare ancora tanto, a cominciare dal salvare ciò che è rimasto. E poi, prendendo spunto dalle città più avanzate della nostra, sia in Italia che -soprattutto- oltreconfine, avviare progetti di vero recupero urbano. Di vero recupero, che non aggiunga cemento ma che anzi, laddove possibile, ne tolga e che consenta di restaurare, ripristinare e anche ricostruire ciò che i nostri avi non hanno saputo o potuto valorizzare a pieno. Adesso tocca a noi, scegliere come vogliamo che sia la città.
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