È il 25 Aprile e come ogni anno si ricorda la Liberazione, cioè la fine dell’occupazione tedesca in Italia ad opera della Resistenza e -soprattutto- degli Alleati, che di lì a poco avrebbero chiuso vittoriosamente la Seconda Guerra Mondiale.
Dapprima alleata della Germania nazista, l’Italia si arrese l’8 settembre 1943. L’esercito venne lasciato senza istruzioni mentre i tedeschi occuparono il centro nord e gli Alleati risalirono dalla Sicilia fino alle porte di Napoli. Un mese dopo, il 13 ottobre 1943, l’Italia dichiarò guerra alla Germania, ma ormai non esisteva più un esercito che potesse combatterla. Quello che seguì fu un anno e mezzo di guerra civile, giogo straniero e bombardamenti quotidiani, dai quali il nostro paese uscirà totalmente annichilito.
I tedeschi e le milizie fasciste loro alleate non consideravano i partigiani come combattenti nemici, ma banditi contro i quali usare ogni mezzo, compresi atti di terrorismo verso la popolazione civile che li sosteneva. Così, per ogni soldato tedesco ucciso o ferito, dieci italiani dovevano essere giustiziati.
Sant’Anna di Stazzema, Marzabotto, Fosse Ardeatine, sono solo alcuni tra i più noti eccidi compiuti in Italia dalle truppe tedesche, che si mostrarono particolarmente feroci nelle montagne tra l’Emilia Romagna e la Toscana.
Da questa triste lista manca l’Eccidio di Viareggio, che non avvenne mai, evitato per il rotto della cuffia grazie a una bugia.
Dal 1863 nella Pineta di Levante era ospitato un balipedio, cioè un poligono di tiro per artiglieria, dove la Regia Marina sperimentava armi e munizioni. Questa struttura cessò di esistere il 17 gennaio 1944 alle ore 10, quando un terribile boato scosse la Darsena. Ulteriori esplosioni seguirono per quasi tutta la giornata, mentre la popolazione terrorizzata fuggiva.

La struttura militare fu posta sotto comando tedesco immediatamente dopo la firma dell’Armistizio, diventando così un possibile obiettivo della Resistenza. Fu il Colonnello delle Armi Navali Alberto Brofferio, già comandante del balipedio dal 1932 al 1935, a progettare l’attentato. Prese le distanze dal regime fascista dopo l’alleanza con la Germania, e fin dal 1943 intrattnne relazioni con il Comitato Nazionale di Liberazione. Al momento dell’attacco, era referente del Servizio Informazioni della Marina per il governo di Pietro Badoglio. Più tardi sarebbe diventato comandante di una formazione partigiana autonoma di orientamento monarchico. Secondo alcune testimonianze, lo stesso colonnello avvertì gli occupanti della zona più prossima al balipedio di allontanarsi dalle proprie abitazioni, poco prima dell’esplosione. Non si saprà mai se è vero, ma è bello pensare che in un momento tanto crudele e sanguinario, qualcuno possa aver compiuto un gesto di protezione verso la popolazione.

Un suo collaboratore, Mario Caccia, entrò nel balipedio travestito da operaio, mescolandosi ai dipendenti, e riuscì a depositare al suo interno una bomba ad orologeria. Nell’esplosione che seguì morirono sette lavoratori: Eliseo Gianni, Guido Benedetti, Umberto Benincasa, Giacomo Castellano, Lamberto Cervelli, Orazio Di Stefano e Mario Sartini.
Sebbene tutti in città sapessero che si trattava di un’operazione antifascista, fortunatamente nessuna formazione della neonata Resistenza rivendicò l’azione. Forse perché fu giudicata prematura e controproducente (basti pensare che Eliseo Gianni, morto nella deflagrazione, era parte dell’organizzazione clandestina comunista), forse per paura di ritorsioni, forse per strategia. Fatto sta che i tedeschi rimasero interdetti e decisero di aprire un’indagine.
Una perizia fu richiesta all’ufficiale di marina Ario Papi, chimico. Quello che i tedeschi ignoravano era che anch’egli era in contatto con il Comitato Nazionale di Liberazione, che informò subito, e che anni prima, fosse stato uno studente del professor Giuseppe Del Freo, noto antifascista.
“L’esplosione è causata da una reazione avvenuta tra il sodio metallico e l’acqua infiltrata dal soffitto. Una tragica casualità.” L’ufficiale, che in seguito si unirà alla formazione partigiana di Marcello Garosi (mista ma di prevalente orientamento comunista) mentì nella sua relazione.
Grazie a quella bugia, alla quale i tedeschi abboccarono, non ci fu rappresaglia e oggi noi non dobbiamo piangere l’Eccidio di Viareggio. Il nome di Ario Papi è stato purtroppo largamente dimenticato, ma a questo militare e chimico, la città deve davvero molto.
Dopo la guerra, gran parte dei resti del balipedio furono abbattuti e l’area edificata, ma alcune testimonianze sopravvivono ancora nel fitto della selva, ormai quasi totalmente ingoiate dalla vegetazione. Sono protette dai pini antichi che furono testimoni di questi fatti.

Come sarebbe bello che fossero riportate alla luce e valorizzate, magari con una targa che raccontasse questa storia, della quale anche Mario Tobino ci parla nel suo romanzo Il Clandestino.
Sarebbe valorizzare la città e la memoria collettiva, mostrando l’orrore di una guerra che solo grazie a una bugia e a tanta fortuna non si abbatté sul popolo viareggino con ferocia ancora maggiore.
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