Mi fermai proprio davanti allo scheletro del vecchio mostro, il caldo del pomeriggio di luglio era quasi insopportabile. Legai la bicicletta e mi avvicinai a piedi. I grandi silos rugginosi spuntavano dietro il muro scalcinato stagliandosi contro il cielo, in un’atmosfera da romanzo di Stephen King.
Mi fermai un momento a contemplare la decadenza di quel luogo, che sembrava un monito contro ogni vanità terrena: un avvertimento sulla caducità della nostra natura mortale. In un certo senso era affascinante.
Vicino al cancello sfondato, era ancora leggibile una targa ormai sbiadita: Salov – Società Alimentare Lucchese Oli e Vini S.P.A. Ricordai quando da piccolo le maestre a scuola ci spiegavano la grande raffineria di olio d’oliva era uno storico punto di riferimento e d’orgoglio per tutta la città. Pur essendo accusata da molti viareggini di essere la causa del cattivo odore notturno che ben mi ricordo (cosa che loro negarono sempre), era comunque ben voluta da tutti, in quanto fonte di occupazione. Per oltre un secolo, una parte non trascurabile dell’olio lucchese era transitato da Viareggio.

La scelta delle città marinara si deve al fatto che un tempo i carichi del prezioso liquido partivano via mare per andare nel resto d’Europa e negli Stati Uniti. Mio nonno vide di persona il via vai di barche e barchini dalle piccole darsene, dette varignanetti, della fabbrica fino al porto, lungo il canale Burlamacca.
Poi, piano piano, la via marittima fu abbandonata e lo scalo perse importanza. La concorrenza si fece agguerrita e la società fu acquisita da gruppi stranieri, infine lo stabilimento di Viareggio fu ridimensionato e poi definitivamente chiuso, circa 20 anni fa.
Da allora, tutto giace dimenticato. La stampa locale riportò ipotesi di faraonici progetti di riqualificazione dell’area, che nonostante le belle presentazioni, si potevano riassumere con la tristemente realistica dizione “ennesima grande colata di cemento”. Si mormorò poi di cause legali, accordi mancati, bonifiche necessarie e tante altre cose che, grazie al cielo, risparmiarono a questa martoriata città un’ulteriore, informe distesa di palazzoni e supermarket.
Pensando a queste cose, mi avvicinai a un cartellone in plastica pietosamente affisso sul muro cadente: era la riproduzione, cotta dal sole, di un’antica mappa raffigurante il Castrum de Via Regia. Proprio lì infatti, sotto gli orridi resti dei silos rigati di ruggine, si trovavano -e forse si trovano ancora- i resti delle fondamenta dell’antico maschio.

All’improvviso si riaffacciò alla mia mente una gita delle scuole elementari, per un progetto di approfondimento della storia locale. Proprio in questo stesso luogo. Anche allora il caldo e l’odioso tanfo di smog attanagliavano quest’area tanto ferita nei secoli. In queste poche, martoriate strade avvennero infatti alcune delle peggiori distruzioni della storia di Viareggio: non solo la grande fabbrica costruita sui resti del castello, ma anche il Palazzo del Commissario di Spiaggia abbattuto per far spazio al cavalcavia e i tremendi bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale che annientarono per sempre gli antichi carruggi del paese.
Il castello, voluto dai Lucchesi e dai loro alleati Genovesi nel 1172, fu un capolavoro d’ingegneria. Realizzato nel bel mezzo di una palude, fu necessario costruire appositamente una strada, la Via Regia, che dette il nome alla futura città. Respinse efficacemente gli appetiti bellici dei Pisani fino al XVI secolo quando, a causa dell’arretramento della linea di costa, fu abbandonato e distrutto dagli stessi lucchesi che lo avevano voluto qualche secolo prima. Una parte delle pietre fu utilizzata per costruire qualche centinaio di metri più avanti un nuovo castello, ancora esistente e che oggi prende il nome di Torre Matilde. Tuttavia, essendo questo più piccolo, una buona parte delle murature sopravvissero sotto forma di ruderi. Come spesso accadeva in quei secoli, i paesani usarono le pietre che riuscirono a prendere per costruire le loro povere case. Anche se da fine ‘800 l’indicazione dell’antico castrum scomparve dalle mappe, le fotografie testimoniano che fino agli anni ’20 del Novecento, grandi porzioni della costruzione erano ancora ben visibili. Anche il mio bisnonno li vide di persona, e mio nonno ne sentì parlare. Finché non decisero di costruirci sopra una fabbrica. Proprio lì. Come se al mondo non ci fosse altro posto.
D’un tratto uscì un uomo alto e magro dal cancello scassato. Aveva un aspetto torvo e uno sguardo minaccioso.
“Vuoi fumo?” chiese in italiano stentato.
“No” Risposi io allo spacciatore, e decisi che era arrivato il momento di andare via.
Risalii in bicicletta e ripartii. Passai davanti ai varignanetti abbandonati, dai quali qualche anno fa un battello turistico portava alla scoperta del canale Burlamacca e del meraviglioso lago di Massaciuccoli, attraversai il cavalcavia che costò a Viareggio un palazzo del 1500, sbucai in via Regia, dove palazzi senz’anima sembravano contenere a stento un traffico soffocante, poi il lungo canale, dove un tempo sorgeva un altro fortino, anch’esso abbattuto dalla barbarità dell’ignoranza di un tempo.
“Non si possono incolpare i nostri avi per ciò che hanno fatto nel passato: non avevano né la nostra consapevolezza né i nostri mezzi. Ma noi, sì che siamo colpevoli” Pensai tristemente.
Passai accanto a un grande cartellone pubblicitario. “Prendi in mano il tuo futuro”, recitava. Niente di più appropriato.
Il sole tramontava ormai su Viareggio, le ombre si allungavano lungo le strade e il buio scendeva come una lugubre coltre, come un requiem per questa città.
Ma per quanto la notte possa essere scura, arriverà prima o poi una nuova, luminosa alba. E chissà, magari uno di quei giorni, ci decideremo finalmente a verificare se le fondamenta del Castrum di Via Regia sono ancora sotto orridi silos arrugginiti. E che magari non abbiamo nessun bisogno di altri palazzoni sfitti e centri commerciali in fallimento, ma semplicemente, di spazi di bellezza e socialità. E a capire che le nostre città sono tesori unici al mondo, che meriterebbero un futuro diverso.
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