Una donna importante presente nel passato lucchese è stata Lucrezia Buonvisi, la quale condusse una vita trasgressiva e a dir poco esemplare.
La storia di Lucrezia Buonvisi sembra ispirarsi alla più celebre Gertrude, di manzoniana memoria, contemporanea di Lucrezia(1576-1650), protagonista di una storia di amore e di delitti ancora più terribile. Ella era figlia di Vincenzo Malpigli, appartenente ad una delle famiglie più ricche della città, il quale trascorreva molto del suo tempo a Ferrara. Era sposato con Luisa Buonvisi, appartenente ad una famiglia ancora più ricca e prestigiosa. Dal matrimonio nacquero tre figlie femmine e un maschio, Lucrezia l’ultima dei figli, nata a Lucca nel 1572 (3/4 anni prima, dunque, della Monaca di Monza) visse la sua infanzia a Ferrara e da giovane ritornò a Lucca.
Il suo destino era quello di sposare un Buonvisi, famiglia da cui discendeva sua madre, ma sembra che qualcosa si opponga a questa realizzazione perché il primo dei prescelti morì dopo aver fissato la data di nozze; si scelse allora uno dei fratelli e accade la stessa cosa. Ma le due famiglie non si persero d’animo e decisero di fare sposare la ragazza con il terzo figlio, Lelio, che aveva la bellezza di 26 anni nel 1591.
Non era passato neanche un anno da quel matrimonio, che si rivelava sterile e, poiché Lucrezia non amava il proprio marito, cominciò a coltivare una vecchia passione, con Massimiliano Arnolfini, discendente pure lui da una illustre famiglia lucchese. Così avvenne che una sera, il primo giugno del 1593, mentre Lelio passeggiava con la moglie, giunti nella piazza San Lorenzo fu assalito da un gruppo di uomini e morì. Si sospettò subito di Massimiliano Arnolfini.
Si interrogarono diversi sospettati,anche usando la tortura, finché uno di questi, Vincenzo da Coreglia, confessò di aver partecipato al delitto insieme ad Arnolfini. Massimiliano fu condannato con la pena di morte e anche per Lucrezia fu ordinata la cattura, che non poté avvenire perché aveva preso i voti nel convento di Santa Chiara, assumendo il nome di suor Umilia Malpigli, il 5 giugno 1593.
La Repubblica di Lucca inviò, allora, un cancelliere a Roma per chiedere al Papa la cattura di Lucrezia, complice nell’assassinio del marito, ma Clemente VIII trovò molti appigli per non consegnare la suora, continuava, nel frattempo la caccia a Massimiliano. Di lì a poco, tuttavia, gli giunse notizia che la donna per la quale aveva commesso il delitto, gli era tutt’altro che fedele, ma che anzi moltiplicava amori e delitti.
Fu per lui un duro colpo. Fu arrestato proprio davanti ai cancelli di Villa Buonvisi, ed essendo stato trovato “fuori cervello” la pena di morte fu tramutata in carcere a vita. Chiuso nella torre Matilde a Viareggio, l’Arnolfini resisté per circa dieci anni, poi si ammalò gravemente ma rifiutò le cure; riuscendo a guarire con le proprie forze, finché quattro anni dopo, nel luglio del 1629, si ammalò di nuovo gravemente e di lui non si seppe più nulla e soprattutto se sia morto in quella circostanza.
Lucrezia continuava, intanto, a coltivare nel convento le sue passioni. Allo stesso modo della Monaca di Monza, anche suor Umilia uccise una monaca che temeva potesse fare la spia dei suoi misfatti. E fu un suo amante a procurarle il veleno. Quel convento fu presto preda a scelleratezze e, oltre a suor Umilia, altre suore furono implicate in scandali. Fu informato il nuovo Papa Paolo V che autorizzò il processo. Suor Umilia godeva di protezioni altolocate, soprattutto da parte del fratello Lorenzo Malpigli, e quindi poteva permettersi di mantenere i soliti costumi e di minacciare le altre suore se li avessero rivelati.
Tutte le suore erano inquiete e sospettose di mangiare i cibi perché pensavano che ci fosse del veleno. Le protezioni di cui godeva Lucrezia si infransero di fronte alla ostinazione di Paolo V; il processo fu concluso e gli atti inviati a Roma e fu emessa sentenza che fu pronunciata dal Papa, nei confronti delle monache implicate negli scandali del convento.
Riguardo a suor Umilia la sentenza dispose una punizione più tenue rispetto alle altre, e cioè che fosse “condannata pure al carcere come sopra; ma solamente per sette anni e alla privazione per sempre dello scapolare, del velo e della voce attiva e passiva”. Trascorse sette anni reclusa e poi le fu restituito l’abito e la voce attiva, senza accostarsi ai parlatori. Di lei non si parlerà più se non nel testamento della madre Luisa Buonvisi, scritto il 17 settembre 1618, ossia pochi mesi dopo la scarcerazione e non è dato sapere la data della sua morte.
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