La Repubblica di Viareggio – Le tre Giornate Rosse del 1920

Kevin amava i racconti di nonno Alberto. Rimaneva per ore intere incantato ad ascoltare quel vecchio signore alto e magro, dall’aspetto pulito e dal marcato accento italiano.

“Nonno, nonno, raccontami ancora di quando hai fatto la rivoluzione!”

L’anziano distolse lo sguardo dalla partita di baseball in tv. I suoi occhi annoiati si riempirono improvvisamente di luce, come il mare di Viareggio al tramonto.

“Ti piace proprio quella storia, eh… E va bene!” Ridacchiò l’uomo.

“Sììì!”

Disse il bimbo, correndo a sedersi sul tappeto davanti alla poltrona.

Alberto spense la televisione, si mise comodo e cominciò il suo racconto.

Era il 1920, io avevo appena 15 anni e lavoravo come garzone di un barbiere. Era una bellissima giornata di maggio, e al Campo di Villa Rigutti si giocava la partita Viareggio-Lucchese. C’eravamo tutti quel giorno, perché era la finale di campionato e si giocava per la promozione in serie B.

La partita fu di grande intensità. La tensione era notevole sia fuori che dentro al campo. Restammo in vantaggio per tutto il primo tempo, ma nel secondo i lucchesi recuperarono, grazie al fatto che l’arbitro, di Lucca, era decisamente di parte.

“Cornuti, cornuti!” Urlavo forte!

Kevin rise divertito.

Mancava pochissimo alla fine della partita quando il guardalinee segnalò un fallo dei lucchesi. Il giocatore gli rispose in malo modo e cominciarono a litigare e proprio in quel momento, l’arbitro fischiò la fine della partita, 2 a 2. A quel punto cominciò una grande zuffa in campo tra i giocatori.

Fu come una scintilla per noi. In men che non si dica correvo verso il campo insieme a tutti gli altri tifosi. Volarono pugni, calci e schiaffi, fu una vera confusione!

Alberto concluse con tono scherzoso, per sdrammatizzare la scena. Pur non avendo potuto studiare, era davvero brillante come oratore e sapeva dosare magistralmente dramma e commedia nei suoi racconti. Il nipotino rise divertito.

Intervennero polizia e carabinieri, che portarono i lucchesi dentro Villa Rigutti. Ci fu qualche momento di tensione, ma alla fine la situazione sembrava risolta. Piano pian, tutti ci stavamo tranquillizzando.

La squadra del Viareggio dell’epoca

Il vecchio parlava con voce calma e i suoi occhi brillavano, Kevin pendeva dalle sua labbra. Ogni volta che sentiva quel racconto era come se fosse la prima. Le sue sopracciglia spesse si incurvarono leggermente e la sua espressione si fece d’un tratto più cupa.

Fu proprio in quel momento che, all’improvviso, successe il dramma. Io ero dietro, nella folla, e non vedevo bene cosa succedeva davanti: ero un ragazzino, circondato da uomini imponenti e donne robuste. Sentii un tuono fortissimo, un rumore terribile. Tutti scapparono. Cascai a terra, e mancò poco che non fui travolto da quella mandria terrorizzata. Un signore muscoloso, forse un marinaio o un calafato, mi alzò e mi lanciò in avanti. “Scappa, ragazzo”, mi disse.

Alberto prese fiato, come per liberarsi da un ricordo pesante.

Per qualche momento, regnò un silenzio assoluto. Ci eravamo tutti nascosti tra gli alberi e nel grande piazzale davanti alla villa non c’era più nessuno. Solo i carabinieri e un uomo, disteso a terra in una pozza di sangue. Ad uno ad uno, tutti cominciarono a uscire dalla pineta e ad avvicinarsi in silenzio al ferito. I militari si ritirarono. Andai anch’io e lo vidi chiaramente. Lo ricordo come fosse ieri e non me lo dimenticherò mai: era il povero guardalinee, che tutti conoscevano bene perché era del paese. Qualcuno gli aveva sparato.

“E perché?” chiese il bambino.

“Perché certe volte le persone fanno cose davvero cattive e ingiuste. Ma questo non ci autorizza a fare come loro.” Rispose l’anziano guardandolo negli occhi per un momento. Poi sorrise e riprese il suo racconto.

Fu portato via, ma era chiaro fin da subito che non sarebbe servito a niente.

In breve tempo tutti seppero, anche quei pochi che non erano alla partita.

“Il Morganti è morto! Un carabiniere gli ha sparato al collo!”

Andammo davanti alla caserma dei carabinieri. Non eravamo organizzati e non avevamo nessun piano, nessuna idea. Volevamo semplicemente giustizia.

“E loro che fecero? Lo arrestarono il carabiniere cattivo?” Domandò Kevin.

No, anzi… minacciarono di sparare anche a noi per farci andar via. Fu la goccia che fece traboccare il vaso. Gruppi di uomini si diressero alla ricerca di armi. Io li seguii, perché volevo partecipare in qualche modo. Non sapevo cosa fare, ma capivo che era giusto opporsi a tutta quella prepotenza. Mi dissero che potevo andare con loro, ma senza fare niente perché ero troppo piccolo.

Ricordo che per prima cosa, assaltammo il tiro a segno. O meglio assaltarono, perché io in realtà non facevo altro che seguirli. Una volta prese le armi, irruppero nella caserma militare alla Torre Matilde. Mi fecero rimanere fuori perché si aspettavano di dover combattere. I soldati invece, per fortuna, si arresero senza opporre resistenza e non ci fu altro sangue. Questo ci dette grande coraggio.

La Torre Matilde, di fianco alla caserma dei soldati

“Ma nonno, perché i carabinieri buoni o i poliziotti o i soldati non avevano preso il carabiniere cattivo?” Domandò il bambino, che non si rassegnava a quel dettaglio della storia che proprio non riusciva a capire.

“Eh…” Rispose l’anziano con un’espressione triste. “Perché noi eravamo popolani, e non valevamo niente. Loro invece erano lo stato. E lo stato e i padroni, a quei tempi in Italia, potevano tutto. Era proprio per questo che noi eravamo così arrabbiati. C’era molta, molta rabbia.”

A quel punto, fu chiaro che avevamo passato i limiti e che ormai eravamo in lotta contro il potere, contro lo stato. E lo stato avrebbe inviato altri soldati e altri ancora e prima o poi avremmo perso. Ma non potevamo arrenderci, non potevamo accettare l’ennesima ingiustizia. Perché sarebbe stato ammettere che le cose non sarebbero mai cambiate e che, in fondo, andava bene così.

Non ci fu bisogno di grandi discussioni. Tutti, istintivamente, scegliemmo di combattere.

I rappresentanti della Camera del Lavoro, che erano tutti socialisti e credevano nella Rivoluzione, presero in mano la rivolta. Proclamarono lo sciopero generale a oltranza. Grazie a Dio, tra loro c’era anche l’onorevole Luigi Salvatori. Anche lui socialista, ma non popolano: era un avvocato. Fu lui a mediare con le autorità e fu solo merito suo se non finì tutto in un bagno di sangue.

Parlavano di Russia, di Lenin, di anarchia e proletariato. Non avevo idea di cosa dicessero, ma sentivo che era giusto, che stavamo facendo qualcosa di importante.

Costruimmo della barricate per isolare la città, bloccammo i tram e la ferroviaria. Tutti i negozi erano chiusi, ci dividemmo le strade da pattugliare. Anche io fui promosso Guardia Rossa –dissero che ci chiamavamo così–: mi misero insieme ad un altro ragazzino sotto la Torre Matilde. Ci dissero di fermare chiunque fosse passato e di rimandarlo a casa. Ci dettero una rivoltella: una in due. Nessuno di noi l’aveva mai vista prima di allora. La tenevo io, perché ero più alto e forte, infilata nei pantaloni. Mi sentivo davvero grande. Sembra incredibile a ripensarci adesso, vero?

“Si, davvero!” disse il bambino con aria sognante.

Appena la notizia arrivò a Roma, credettero che fossimo una banda di sovversivi manovrati dai Russi o da chissà chi e l’esercito fu incaricato di riprendere la città.

“Ci uccideranno tutti! Arrendiamoci!”

“No! Dobbiamo combattere!”

“Facciamo la rivoluzione come in Russia!”

“Ci impiccheranno tutti anche se ci arrendiamo!”

Le voci si rincorrevano, nessuno sapeva cosa fare e avevamo paura. Io tenevo il mio posto, pattugliando la strada che mi avevano affidato.

Ridacchiò Alberto.

Alla fine, ma questa volta dopo molte discussioni, vinse ancora chi diceva di combattere. Gli anarchici, che erano diventati il gruppo più forte, issarono sul Municipio la loro bandiera nera e venne proclamata la Repubblica di Viareggio. Ricordati che a quei tempi in Italia c’era il re, quindi era un doppio affronto: indipendenza e repubblica!

“Siete stati coraggiosi, nonno!” Disse il bambino sognante.

“O forse pazzi” Alberto sorrise.

Nella notte arrivarono molti altri anarchici dalle città vicine: tutti volevano partecipare alla nostra rivoluzione. All’alba un gruppo di Guardie Rosse intercettò una camionetta dei carabinieri, con il maresciallo e 10 uomini. Li arrestarono e li portarono alla Camera del Lavoro, dal governo provvisorio. Eravamo in grande allarme: lo stesso giorno le guardie fermarono altri due camion peni di militari inviati a Viareggio. Io ero in una zona centrale, quindi non presi parte a quelle azioni, che avvenivano al limite della città, dove erano schierati i gruppi più forti. Eppure mi sembrava in qualche modo di partecipare, ero sempre sul chi va là.

Nella notte ci furono aspre discussioni: gli uomini erano seriamente preoccupati per il giorno dopo.

Dopo una lunga notte di veglia, arrivò finalmente il mattino. Le vedette ci dissero che erano arrivati i blindati ad assediare la città da ogni lato. All’orizzonte erano ben visibili due navi da guerra.

Nessuno aveva più voglia di scherzare, né di parlare. I capi ci dissero che era ormai tempo di arrendersi, e che stavano trattando la resa.

Kevin ascoltava con aria triste.

Quel giorno ci fu il funerale del povero Morganti. Parteciparono tutti; dette il senso della fine di quella nostra pazza avventura rivoluzionaria.

Avevo paura che sarei finito in galera e per tutto il giorno non riuscii a pensare ad altro.

“Ragazzo, qualunque cosa accada, sii fiero di ciò che hai fatto. Sei una Guardia Rossa!” Mi disse un uomo con un fucile a tracolla, facendomi il gesto del pugno chiuso. Risposi nello stesso modo e ripresi coraggio. Appena calò la notte, i combattenti forestieri lasciarono Viareggio, disarmati, ad uno ad uno, a piedi nei boschi e nei campi. Riconsegnammo le armi ai capi, perché le portassero in un logo sicuro, che non sapeva nessuno. E l’esercito entrò infine in città prima del mattino.

“E che successe poi?” chiese Kevin

Furono arrestati solo i capi, mentre noi guardie fummo perdonati. I soldati rimasero a lungo, cercando di recuperare inutilmente tutte le armi nascoste. Si dice che alcune siano ancora sepolte da qualche parte, in attesa della Rivoluzione.

Pochi anni dopo poi arrivò il Fascismo. Anche loro parlavano di rivoluzione, ma la loro era l’opposto della nostra. Anche i fascisti issarono bandiere nere, ma erano molto diverse da quelle dell’anarchia. Quando fu chiaro che avevano vinto loro, chi fece in tempo scappò. Ed eccomi qui, in America, dove sei nato tu e tuo papà prima di te.

“Nonno, mi piacerebbe tanto un giorno vedere dove hai fatto la rivoluzione”.

Alberto ridacchiò.

“Chissà, perché no… Però Kevin il luogo dove ho fatto la rivoluzione non è più là.”

“E allora dov’è, nonno?”

“È proprio qua” disse l’anziano poggiandosi la mano sul petto, sorridendo.

“E credo che forse sia anche un po’ qua”. Faticosamente si sporse dalla poltrona per spostare la sua mano sul piccolo petto del bambino.

Kevin la strinse con affetto, poi rise e scappò nell’altra stanza a giocare.

“Che bella storia nonno! Dopo me ne inventi un’altra?”

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Gabriele Levantini nasce a Viareggio il 10 aprile 1985. Chimico per lavoro e scrittore per passione, dal 2017 gestisce il sito Il Giardino Sulla Spiaggia. Seguimi sul mio blog: https://ilgiardinosullaspiaggia.wordpress.com