Mio nonno, Marino Levantini, fu medaglia d’oro di lunga navigazione. I suoi racconti mi colpivano molto e ascoltavo sempre volentieri le storie relative ai suoi viaggi in mare, e al suo lavoro.
Peraltro, toccava spesso a lui il compito di cuoco di bordo. Mi raccontava della cucina rude dei marinai, dell’aceto, del rosmarino, delle conserve. Mi diceva dei trabaccolari, ovvero i pescatori di san Benedetto del Tronto massicciamente emigrati a Viareggio a inizio XX secolo, che mangiavano il polpo essiccato al sole, dei rifornimenti al carcere di Capraia e alla Canarie, dello scambio “pesce per formaggio” con i pastori sardi.
E una delle cose che usava dire è che quasi tutto ciò che si trova in mare è commestibile. La sua non era una teoria, ma il frutto di esperienze concrete, dettate dalla fame.
Mio nonno, figlio di marinaio e nipote di marinaio, cominciò a lavorare da bambino, facendo ogni tipo di lavoro, tra cui la raccolta delle vongole nel Bozzone insieme a suo zio e poi, appena ebbe l’età minima legale -14 anni- si imbarcò intraprendendo anche lui la vita di mare. Dopo aver fatto lavorato su navi mercantili, passò ai pescherecci dove trascorse gran parte della sua vita.
La sua non è una storia insolita, ma anzi piuttosto comune per la Viareggio marinara di quell’epoca. Mio nonno, come tanti altri della sua generazione, conobbe la fame, in senso letterale.
Ecco perché non sprecavano niente: ogni cattura era preziosa, ogni fonte di cibo doveva essere sfruttata.
Oggi i tempi sono cambiati e l’impronta umana sul mondo è sempre meno sostenibile. Perciò, nel corso degli anni, sono state imposte sempre maggiori limitazioni su quanto e cosa possa essere pescato.
Ma non a quell’epoca. A quell’epoca tutto era cibo, compresi i delfini, che in dialetto venivano chiamati pescio-porco o porco di mare, in quanto ne veniva consumata ogni parte, con numerose preparazioni diverse, così come avviene con il porco.
Se ne facevano bistecche, spezzatini, stufati, preparazioni in umido e se ne mangiavano anche le interiora, ma la ricetta principe era il musciame, cioè carne secca. Una specie di prosciutto di mare, se vogliamo.
Altra prelibatezza erano le tartarughe di mare, le quali in realtà erano abbastanza di moda, tanto da figurare nei menù di numerosi ristoranti chic, gustate da marchesi e industriali che venivano a fare i bagni di mare a Viareggio.

Ma, mentre questi gran gourmet l’apprezzavano specialmente in consommé, i marinai la consumavano più spesso in arrosto o in umido.
Questi animali, all’epoca assai più abbondanti di oggi, rimanevano spesso nelle reti provocando danni e divorando i pesci catturati, inoltre erano piuttosto mordaci una volta portati a bordo. Ecco perché venivano uccisi rapidamente e, naturalmente, non andavano sprecati.
Forse ancora meno invitante ai nostri occhi, è l’uso di mangiare il cormorano, chiamato pallante in dialetto viareggino. Ma, alla fine, forse qualcuno di noi che ha visitato la bellissima Islanda ha assaggiato la carne di marangone, suo parente stretto, o quella della pulcinella di mare, altro uccello acquatico.
I cormorani costituivano una fonte di carne relativamente abbondante e facile da catturare, un’occasione che i pescatori non potevano lasciarsi sfuggire.

Questi animali venivano catturati tramite robuste lenze gettate fuori bordo, alle cui estremità erano fissati dei rampini con pesce o interiora di pesce. Nel momento in cui il cormorano si buttava sull’esca, i pescatori strattonavano la lenza, catturandolo. Una volta a bordo, veniva ucciso, pulito e messo a frollare in ghiacciaia. La preparazione principe era alla cacciatora o in umido.
A proposito di cacciatora e cacciatori, vanno segnalate anche le antiche ricette di selvaggina, un tempo preveniente dalla Macchia Lucchese e, soprattutto, dal Lago di Massaciuccoli: folaghe, anatre, colombacci, alzavole, merli, tordi, storni, passerotti e altro ancora. Tutti piatti estinti, o quasi.
Questa carrellata di antiche ricette ormai estinte, si chiude con l’ormai deposta regina della cucina viareggina: l’anguilla cèa, cioè l’avannotto, appena nato, di anguilla.

La loro pesca avveniva nelle notti d’inverno, lungo il canale Burlamacca, usando un apposito retino chiamato cerchiaia, alla luce di una piccola lampada detta tradotta.
Venivano consumate secondo antiche ricette, già annotate da Pellegrino Artusi nel suo libro “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene” del 1891, quali ad esempio le cèe alla viareggina, le cèe fritte, la frittella di cèe, la pasta con le cèe e la polenta di cèe.
Anche se a vederle sono davvero brutte, chi le ha provate giura che siano buonissime. Dev’essere vero, visto che ci sono tuttora persone disposte ad affrontare denunce e multe pesanti, pur di continuare a mangiarle.
Probabilmente qualcuno sarà disgustato da queste antiche ricette, qualcun altro invece rimpiangerà i bei tempi in cui non avevamo ancora fatto così tanti danni ambientali da costringere i legislatori a intervenire.
Pochi invece si renderanno conto di quanto siamo fortunati oggi a non sperimentare più la fame che ha accompagnato la vita dei nostri nonni.
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