“chiude la porte!”
“dammi la mane”
“sono ‘n pena, mi sente la stiena”
“c’è sempre diaccio vi dentro”
“delafia come pezzìa”
“a lellì ni si vede anco la natura”
“per noaltri c’erino gli zeri, i gambari si vendevino”
“vado a dì ‘l bene”
“troppi cuóchi smerdino la ’ucina”
“oggi c’hai le ruzze”

Mio nonno Marino conservava gli scarti del pesce, con i quali faceva un brodo che era una cannonata. Nella mia memoria affiorano pezzi di dialoghi di un tempo ormai lontano, come le teste dei pesci nella pentola.
Poi lo filtrava, ottenendo un liquido fumante e profumato, degno di un ristorante stellato. Allo stesso modo, cerco di isolare i suoni delle voci dei miei nonni, le loro parole, la pronuncia, i dittaggi.
Nonno Marino e Nonna Clorinda parlavano solo in vernacolo viareggino. Non per scelta, ma per estrazione sociale. La povertà aveva fatto sì che non studiassero abbastanza a lungo da sostituire quella lingua naturale, appresa in famiglia e per le strade, con l’italiano della scuola.

A quell’epoca era normale studiare pochissimi anni, e poi si andava a lavorare.
Senza alcun rimpianto per quel tempo crudele, occorre però dire che l’immensa ricchezza delle lingue popolari, tramandate oralmente di generazione in generazione, sembrava qualcosa che mai si sarebbe potuta dissipare. E invece, in pochi decenni, è andato tutto perduto, o quasi.
Oggi il viareggino non si sente praticamente più nella vita quotidiana, o perlomeno molto raramente, sulla bocca degli ultimi anziani. Paradossalmente, scomparso come lingua naturale, sopravvive solo nell’ambito artistico, in canzoni del carnevale, poesie e racconti e, soprattutto, nelle celebri Canzonette, rappresentazioni teatrali comiche amatissime in città.


Tra i grandi nomi che hanno dato spessore culturale al vernacolo c’è Lorenzo Viani, Egisto Malfatti, Egidio Vassale, Antonio Morganti, Carlo Francesconi e, in epoca più recente, l’indimenticabile Claudio Morganti, re delle Canzonette della Compagnia Burlamacco 81, scomparso da poco.
D’altra parte, lo diceva anche Iberico Gianni, marinaio di stirpe palombara e autore di un vocabolario del vernacolo, che si tratta di una “lingua pesa ma dotta”.
Parente stretto del vernacolo lucchese, ne costituisce la variante parlata nell’antica collettività viareggina che comprendeva anche Massarosa e Lido di Camaiore.

Rispetto alla parlata di “di-là-dal-monte”, il viareggino presenta peculiarità nella pronuncia, varianti lessicali ed espressioni proprie.
Ha risentito, specialmente nelle aree di Massaciuccoli e Torre del Lago Puccini, di influssi pisani.
Ma, cosa più importante, la fiorente marineria che rese Viareggio famosa nel mondo tra la fine XIX secolo e metà del XX, portò marinai ovunque nel mondo e di introdurre nella loro parlata alcune espressioni di origine straniera. Peraltro, nella stessa epoca, la città era assai cosmopolita, e frequentata da artisti internazionali.

Dall’inglese derivano ad esempio parole come barcobestia (veliero di invenzione viareggina) da “best barc”, ciortone (sgombro) da “short tuna”, brecche (catrame) da “black”.
Dal francese, tirabusciò (cavatappi) da “tire-bouchon” o lingiari (intimo) da “lingerie”.
Riguardo ai modi di dire, naturalmente molti sono di origine marinaresca, mentre altri fanno riferimento alle storiche rivalità con le città vicine, specialmente Lucca.

Ci sono parole che dicono molto sul modo di vivere dei nostri avi, come “pescio-porco” per delfino, animale di cui si mangiava tutto, “au tartana”, a indicare incertezza, come incerto era il rientro di queste piccole barche, o “sciabigotto” per sciocco, come i vecchietti che, ormai a terra, pescavano solo con la sciabica.
Lucca, dove c’è “odor di merda stucca” è invece onnipresente nei modi di dire viareggini, una vera ossessione tipica dei rapporti di odio e amore, di una figlia adolescente verso la mamma. I lucchesi, “foòsi ma prudenti” sono dipinti come tirchi per antonomasia, quelli che “‘un mangino per ‘un caà”,chiusi, chiesarotti e immotivatamente altezzosi: “Aranci e limoni, lucchesi buggeroni”.
Anche i camaioresi “sette-facce” non se la passano meglio, dipinti come rozzi campagnoli. Ad esempio, “A’ ccamaioresi ni traboccò ’l matéo!” è un modo di dire che si riferisce ad un aneddoto locale secondo il quale un viareggino e un camaiorese si sfidarono a chi avrebbe prodotto la maggior deizione all’interno in un matéo, un antico cappello, e vinse -di gran lunga- il secondo.

Non manca neanche l’autoironia e infatti ogni viareggino sa che “A Viareggio tre cose ‘n abbondanza: acqua, rena e ‘gnoranza. Viareggio di tre cose è piéna: acqua, ‘gnoranza e rena”, così come è sotto gli occhi di tutti che “Viareggio: oggi male, domani pèggio”.
Sarebbe bellissimo che nelle scuole cittadine si potesse parlare ai ragazzi di come “discorevino” i loro avi, e che si potessero innamorare di quell’antica ricchezza.
Fàmosi a ‘ntende, si sa che la nostra lingua è una “zuppa del Seghetti”, una “robba da pogo”, ma è pur sempre la nostra identità. Siamo legati indissolubilmente al mondo che ha generato questo linguaggio, che è una parte fondamentale di Viareggio, naturale come le gaime (gabbiani) che volando e urlano al porto e il lavarone che il mare stracca sulle nostre lunghe spiagge. E dovremmo valorizzarla di più.
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