A Viareggio non mancano certamente buoni ristoranti, ma purtroppo è sempre più difficile trovarne di quelli che servano autentici piatti di cucina viareggina.
Non mi si prenda per conservatore: io sono semmai un entusiasta delle novità, uno che fa le corse per essere tra i primi a provare i più esotici ristoranti quando li incontro. Ma Viareggio, nonostante un carattere sempre più multiculturale e qualche ristorante etnico di buon livello, non offre ancora un panorama alimentare internazionale vivace quanto quello di altre città vicine.
Diversamente da Lucca, mamma e matrigna della quale saremmo la marina, dove è semmai difficile trovare un ristorante che serva altro rispetto ai blasonati piatti tradizionali, il panorama viareggino si è piuttosto settato su una cucina che si può definire mediterranea. Piatti eccezionali, per carità, ma che si possono gustare da Imperia a Trapani, da Napoli a Rimini, da Barcellona a Zara.
È un enorme piacere per me ogni volta che scopro un ristorante che ancora conserva ed esegue una delle nostre antiche ricette.
Sulla cucina viareggina sono stati scritti molti libri che vale la pena leggere. Uno tra i molti che vi potrei consigliare è Quando i polli si spennavano a mano, (Flavia Franceschini, Giovanni Levantini, Maria Gabrielle Maestri e i ragazzi della IIB (’97/’98) dell’Istituto Professionale Marconi di Viareggio, ISBN 9788896915608, Pezzini Editore, Viareggio, 2002), ricco di aneddoti e testimonianze. Senza dubbio però, la cosa migliore da fare è armarsi di sana pazienza, andare a caccia dei ristoranti che ancora fanno cucina viareggina autentica (diffidate dai molti che aggiungono “alla viareggina” a piatti che viareggini non lo sono affatto, solo per marketing!) e provare i piatti.
La cucina di Viareggio e ha come elementi principali il pesce e la verdura, il che è abbastanza ovvio se si pensa all’enorme flotta pescherecci che aveva un tempo, che arrivò ad essere tra le principali del mediterraneo. A farla da padrone erano originariamente i pesci poveri perché quelli di maggior valore commerciale erano venduti ai ristoranti. I frutti di mare erano inoltre una fonte di cibo relativamente facile da procurarsi: le arselle (telline) o nicchi in dialetto, venivano raccolte tramite setacci detti rastrelli. Altri frutti di mare, come cannolicchi (coltellacci), mactre (nicchioni), acanthocardie (cuore), bolinus (murice) e altri, venivano in genere raccolti sulla spiaggia dopo forti mareggiate.
Diversamente di quanto si trova oggi nei ristoranti cittadini, la cucina marinaresca era inizialmente povera e rustica, dai gusti decisi, e faceva ampio utilizzo di aglio, peperoncino, prezzemolo, rosmarino (tremarino in dialetto) e marinature di aceto finalizzate alla conservazione degli alimenti.
La verdura proveniva dalla campagna circostante, dalla Migliarina a Massarosa e alle colline, un tempo parte di Viareggio. Oggi la campagna è ormai praticamente scomparsa, divorata dalla cupidigia edilizia degli speculatori, e gli ultimi scampoli rimasti avrebbero urgente bisogno dell’istituzione di un Parco Agricolo Urbano che li tutelasse realmente. I fertili campi offrivano i vegetali che accompagnavano il pesce, creando abbinamenti originali come legumi e crostacei o bietole e seppie. Si faceva ampio ricorso all’umido (sugo di pomodoro).
La Macchia Lucchese era una fonte di cacciagione, specialmente folaghe, anatre, colombacci, alzavole e altri uccelli, in modo simile a quello che avveniva nella vicina Pisa. La carne era comunque poco impiegata e consisteva principalmente in animali da cortile (pollame, conigli), nel quinto quarto, con piatti come picchiante e coratella e in affettati poveri come il biroldo e la testa in cassetta. Anche la Pineta di Ponente, oggi piccolo “Central Park” cittadino, era impiegata come fonte di pinoli.
Dal lago di Massaciuccoli, dai laghetti della zona della bonifica e dai canali provenivano anguille, tinche e rane, che costituivano un’alternativa al pesce di mare quando le condizioni meteo non permettevano la pesca, oltre al riso. Bisogna tenere presente le condizioni di sussistenza alle quali sottostavano i pescatori e i contadini viareggini, per capire le quali basta pensare a ricette come quella -incredibile- della pasta ai sassi.
Non veniva sprecato niente, a cominciare da ciò che rimaneva nelle reti e numerose erano le ricette viareggine oggi proibite a causa delle limitazioni normative. Tra queste, i piatti a base di carne di delfino (pescio-porco o porco di mare in dialetto, in quanto ne veniva consumata ogni parte, con numerose preparazioni diverse, così come avviene con il porco), tra le quali il celebre mosciame, e di tartaruga. Tra questi piatti si ricordano il consommé, la tartaruga arrosto e in umido. I pescatori mangiavano talvolta anche i cormorani (pallanti, in dialetto viareggino), ad esempio alla cacciatora.
Ma nella lunga lista di piatti ormai estinti, le cèe (anguille cieche, cioè avannotti di anguilla) la fanno da padrone. La loro pesca avveniva nelle notti d’inverno, lungo il canale Burlamacca, usando un apposito retino chiamato cerchiaia, alla luce di una piccola lampada detta tradotta e venivano preparate in mille modi diversi.
Alcuni piatti poveri tipici della cucina toscana erano diffusi in città: panzanella, pappa al pomodoro, pancotto, polenta, matuffi, salacchini, pasta intordellata, farinata di cavolo nero, cecina. Nei giorni di festa, specialmente a carnevale, si potevano invece consumare i tordelli.
La massiccia immigrazione di pescatori di San Benedetto del Tronto, chiamati dai locali trabaccolari (utilizzatori di trabaccoli, un caratteristico tipo di imbarcazione) introdusse elementi nuovi, come la trippa di mare, e creato contaminazioni gastronomiche come la pasta alla trabaccolara.
Viareggio non fu solo terra di immigrazione, ma anche -e soprattutto- di emigrazione. I contatti con le altre marinerie, specialmente quella livornese, sono evidenti in piatti come il cacciucco, che è il vero re della cucina tradizionale viareggina, e le triglie alla viareggina.
Per quanto riguarda i dolci, quelli diffusi sono i budini di riso, i befanini (o befanotti) nel periodo natalizio, e quelli del carnevale: frittelle di riso, bomboloni (bomboloni ripieni, in dialetto) e ciambelle (bomboloni), chiacchiere (cenci), torte di semolino e di cioccolata e riso. Inoltre, dalle vicine colline provenivano le castagne con le quali preparare ballonciori (castagne lesse), mondine, necci e castagnaccio (pattona). In Quaresima, periodo nel quale non si potevano consumare dolci, si usava la pasimata e il pan di ramerino. Da segnalare la particolarissima scarpaccia dolce, a base di zucchini, che nella vicina Camaiore diventa invece un piatto unico salato.
Lo sviluppo turistico balneare e l’arrivo in città di stranieri e di forestieri, hanno contribuito a ingentilire la cucina, ma spesso anche ad impoverirla. Nondimeno, non mancano invenzioni moderne frutto di contaminazione degne di nota, quali ad esempio lo stocco alla Tono, la carbonara di mare alla viareggina e il peposo alla viareggina.
Spero che un giorno, questo immenso patrimonio gastronomico e culturale venga finalmente riscoperto e valorizzato come merita. Magari promuovendolo verso i visitatori e creando percorsi ad hoc nei ristoranti cittadini, come già stanno facendo molte altre città italiane, facendo di queste grandi eredità un volano turistico. Nel recente passato ci sono stati timidi tentativi di promozione di alcuni piatti, come la trabaccolara e il cacciucco alla viareggina, attraverso alcuni eventi ad hoc.
La potenzialità a livello di turismo enogastronomico è dimostrata dal fatto che le cucine del Rione Darsena e delle varie sagre che offrono cucina viareggina sono puntualmente prese d’assalto da locali e visitatori.
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