Ricordo una Pasquetta meravigliosa, ormai di così tanti anni fa che preferisco non contarli. I miei genitori mi portarono alla Pineta di Levante, “ai laghetti” e infine -essendo quell’anno una Pasqua bassa e molto afosa- a fare il bagno alla Lecciona. Se ci ripenso, mi sembra di sentire ancora il profumo dei camucioli e il sole che feriva i miei occhi. Da allora sono tornato moltissime volte in quella che noi viareggini chiamiamo Pineta di Levante, il cui nome ufficiale è Macchia Lucchese.
Questa grande selva è parte del Parco Naturale Regionale di Migliarino, San Rossore e Massaciuccoli, autentica perla ambientale toscana il cui territorio si estende da Viareggio a Livorno, comprendendo anche la zona costiera delle Secche della Meloria.
È incredibile che nella piccola porzione viareggina di questo immenso parco si possano contare ben tre zone di pregio naturalistico, dette SIR (Siti di Interesse Regionale): la Macchia Lucchese (SIR 24), il Lago di Massaciuccoli (SIR 25) e le Dune Litoranee di Torre del Lago (SIR 61). Tre ambienti estremamente diversi e ricchi di biodiversità, nel giro di pochissimi chilometri.
La macchia attuale è in gran parte frutto dell’intervento dell’uomo. Infatti partire dal 1741 l’area costiera fu pesantemente rimboschita con pini e lecci, al fine di difendere le coltivazioni dai venti marini. Queste operazioni proseguirono fino agli anni ’60, quando si cominciò ad adottare un approccio più scientifico e a sostituire il pino con alberi più adatti all’ambiente. Nonostante queste intromissioni umane, sono state individuate qui numerose piante rare e addirittura alcune sottospecie endemiche.
È davvero miracoloso che questo grande bosco costiero, lungo oltre sei chilometri, si sia conservato senza troppi danni in un territorio la cui densità di popolazione è seconda solo a quella di Firenze. In parte ciò si deve alla presenza dal 1863 al 1944 di un grande balipedio militare, il cui ingresso era interdetto alla popolazione, e della Tenuta Borbone (esistente dal 1821 dal 1926). Successivamente, la nascita della coscienza ambientalista e l‘istituzione dell’area protetta nel 1979 riuscirono a salvare l’area prima che venissero apportati danni molto estesi.
Le mie passeggiate al parco di solito iniziano al termine del Viale Europa, il “vialone” della Darsena, dove si trovano numerosi stabilimenti balneari e locali. Un tempo must della movida viareggina, ha ormai perso gran parte della sua attrattiva e avrebbe bisogno di un serio piano di rilancio, a partire dalla sua pedonalizzazione. Parcheggio l’auto vicino alla torretta dei vigili del fuoco e mi incammino sulla stradina sterrata e accidentata che corre lungo tutta la zona retrodunale. È proprio qui che si formano i famosi “laghetti”, che sono in realtà lame (alcune stagionali e altre permanenti) di indiscutibile fascino e di grandissimo valore ambientale.
Oltre questi, sulla mia destra si stagliano le dune (i “poggioni”), colonizzate prima dai ginepri coccoloni e poi via via da piante sempre più basse e rade, fino ad arrivare alla spiaggia morbida e nuda: la Lecciona. Un tempo, frequentare questa spiaggia -oggi molto di moda- era sinonimo di promiscuità o di ambiguità sessuale. Infatti quest’area riparata si prestava bene alla frequentazione di nudisti, gay e persone che andavano “a svelassi”, cioè ad appartarsi per rendez-vous particolarmente fisici. Oggi invece ci sono un gran numero di famiglie, ragazzi e bambini. Ai miei tempi qui si facevano i falò notturni, cosa romantica e di grande fascino, ma da evitare per proteggere il fragile ecosistema dunale, oltre che per non imbattersi in multe severe.
Il caldo torrido e polveroso della spiaggia selvaggia contrasta col fresco della pineta, che si estende alla mia sinistra, dopo altre lame, un po’ più estese di quelle già incontrate. La prima linea dell’area alberata è quella dei pini, che lentamente lasciano il posto ai lecci a mano a mano che ci si allontana dal mare. Nel fitto della vegetazione ci sono altre zone umide, generalmente più piccole, ma talvolta anche di notevoli dimensioni, dove biacchi e tartarughe nuotano tra le radici dei frassini e degli ontani. Vi si trova anche una vasta rete di fossi di bonifica, che a loro volta racchiudono un universo di vita, raro e delicato come i tritoni italiani, che qui ancora resistono.
Nel bosco, un fitto reticolo di sentieri consente di fare lunghe passeggiate, corse, o pedalate, ma uscendo da questi non è difficile trovarsi intrappolati in una vegetazione così densa e primitiva da non riuscire più ad avanzare. Punti dove l’intervento dell’uomo è ben presente si alternano ad altri che sembrano essere ancora vergini. In prossimità dei principali percorsi segnalati si trovano ad esempio un giardinetto dove d’estate si celebra la santa messa, (la “cappellina”), un maneggio abbandonato, una vecchia abitazione, un bocciodromo e i resti scalcinati d’una fortificazione del ‘700. Ma in certi sottoboschi scuri e profumati di funghi, al contrario si ha l’impressione d’essere il primo uomo a metterci piede.
Il Viale dei Tigli, rappresenta la fine di questo ambiente protetto. Al di là della strada, un tempo famosa per un’attività economica che il compianto maestro Egisto Malfatti spiegò nella canzone “Le donnine dei tigli”, si trovano il quartiere Ex Campo d’Aviazione, alcuni residui campi coltivati sopravvissuti a una cementificazione veloce e furiosa e i famosi campeggi, tanto apprezzati dai viaggiatori nord europei. Ci sono inoltre alcuni chioschi e ristoranti, tra i quali La Lecciona, ricavato in un antico capanno di caccia della Villa Borbone. Quest’ultima, costruita nel 1821 dall’architetto Nottolini per Maria Luisa di Borbone-Spagna, duchessa di Lucca, è il vero punto d’interesse di tutto il viale. Nonostante varie peripezie nel corso degli anni, tra i quali occupazioni militari e un lungo abbandono, l’edificio si è conservato relativamente bene ed è stato oggetto di un approfondito restauro a partire dal 1999. Interessante notare che nella cappella riposano i resti degli ultimi duchi di Parma, le cui spoglie sono state oggetto di studio da parte della squadra del Prof. Gino Fornaciari, luminare viareggino della paleopatologia, per lunghi anni ordinario dell’ateneo pisano. Sfortunatamente però, questo bene storico e architettonico di così gran pregio non è ancora sfruttato al massimo delle sue potenzialità turistiche.
Il comune di Viareggio rientrò in possesso dei terreni già parte della tenuta di caccia annessa alla villa solo nel 1926, dopo complesse vicende legali, come ci racconta un cippo marmoreo assai rovinato posto vicino al cancello della magione. In un documento dell’epoca si legge: “era stato violentemente usurpato alla municipalità di Viareggio nel 1818 per atto dispotico dell’allora duchessa di Lucca Maria Luisa, mentre l’importanza ed il carattere assunto dalla città reclamavano la destinazione ad uso pubblico della pineta come condizione essenziale per l’ulteriore futuro sviluppo dell’industria balneare e dei forestieri e come necessario elemento del suo miglioramento igienico e del suo incremento edilizio”. Quindi possiamo immaginare che senza la prepotenza della duchessa, la Pineta di Levante oggi non esisterebbe affatto.
Continuo a camminare in direzione sud, tra rumori di picchi e fruscii -forse di daini e cinghiali- tra le fronde in lontananza, e arrivo infine a Torre del Lago Puccini. Il viale Marconi taglia in due la pineta: davanti a me, seminascosto tra gli alberi, intravedo il Quartiere Lago Mare, immenso agglomerato di palazzine la cui realizzazione fu uno degli ultimi sfregi ambientali prima che venisse istituito il parco, e uno degli argomenti a favore della sua realizzazione. Superando il mostro addormentato nella foresta, si arriva all’area del Fosso della Bufalina e infine alla grande Selva Pisana.
Andando a destra arriverei alla Marina di Torre del Lago, un tempo epicentro italiano della movida LGBT, e oggi landa semidesolata in cerca di nuova vocazione. A sinistra invece sarei in breve tempo sul lago di Massaciuccoli, a godere dell’impareggiabile vista che ispirò il maestro Puccini.
Forse si tratta dell’area in assoluto di maggior pregio dell’intero parco naturale, classificata Sito ICBP (International Council for Bird Preservation) per la presenza di specie ornitiche rare e minacciate, tra le quali il tarabuso, l’airone rosso, il mignattino, il basettino e il falco di palude. Grazie alla presenza di ambienti rari come le torbiere che consentono l’esistenza di forme di vita altrimenti scomparse da queste latitudini, il lago, sebbene umiliato dall’uomo in ogni modo, rimane un microcosmo complesso che ancora resiste e stupisce.
Oggi forse stiamo imparando dai nostri errori, ma il rapporto con la natura è ancora complicato, come dimostra il periodico riesplodere del conflitto tra ente parco e comune di Viareggio. Non è facile trovare soluzioni equilibrate, che tengano conto dei vari interessi e delle prospettive future. Una volta però un amico forestiero in visita a Viareggio, dopo una giornata al parco mi disse: “È incredibile che abbiate un luogo come questo praticamente in città, siete davvero fortunati”.
Ed è esattamente così che mi sento ogni volta che mi perdo in questa foresta magica, in questo nostro grande cuore verde.
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